venerdì 30 dicembre 2016

Cinematografo dell'alpino: Rogue one: A Star Wars story: Una storia non così lontana...

Un film che porta a dire, dopo averlo visto "beh, ho speso molto bene tempo e danari".

Gli amici sanno bene che uso questo giudizio con una certa parsimonia. Sì, devo ammetterlo, sono andato al cinema prevenuto, e lo sanno bene quei poveracci, che nei mesi scorsi ho esasperato, brontolando che Rogue One sarebbe stato una "cavolata galattica", dalla storia debole e poco significativa, perché sono tra i delusi di episodio VII: a parte i personaggi credibili, merito di attori capaci, gli effetti speciali ben curati, e alcuni aspetti innovativi della trama (pochi, ahimè), in generale, il primo capitolo della nuova trilogia si presenta come un remake del IV capitolo-Una nuova Speranza; di fatti alla fine vince la sensazione de "l'ho già visto".

Problema che avrebbe potuto macchiare Rogue One, essendo ambientato tra il III e il IV episodio, quindi nel periodo che parte dalla grande purga jedi e arriva alla guerra civile galattica. Ma non succede.

Il primo spin-off della saga di Guerre Stellari, diretto da Gareth Edwards, non è definibile come semplice capitolo, è qualcosa di profondamente diverso, però allo stesso tempo riesce a collegarsi perfettamente, come anello di congiunzione, alla storia della galassia lontana lontana più famosa, sub-creata da George Lucas. E lo fa in un modo che stupisce fin dalle prime inquadrature.

Vediamo lo sfondo nero le stelle la famosa scritta "tanto tempo fa, in una galassia lontana", e i brividi iniziano a farsi sentire per l'emozione, nel silenzio dell'attesa per la potente colonna sonora e crawler (il testo con titoli ed introduzione che scorre come un rullo). Passano tre secondi e... la colonna sonora non arriva; anzi, inizia subito il film, che ci porta dritti nell'azione, sul pianeta ove si trova una delle figure chiave del film Jyn Erso/Felicity Jones con la sua famiglia.

Il primo aspetto che emerge è quello del terrore, usato dall'impero per governare la galassia. Eppure, non ha l'ultima parola. Quella famiglia porta la luce nel momento più buio della galassia, assieme alla forza (una sorta di provvidenza benevola), qui simboleggiata da un cristallo usato come dono, che ne anticipa un altro più grande, il sacrificio di una madre e moglie. Le immagini che seguono immortalano i potenti volti dei membri di quella comunità dai legami profondi: un padre geniale e giusto, fuggito per togliere alla tirannia i suoi talenti, una figlia tanto amata, e una madre coraggiosa che con una frase, rivolta al male e a chi in quel momento lo rappresenta, il direttore Krennic, getta il primo seme di speranza e svela come tutto andrà a finire: "Tu non vincerai mai!". E lo fa donando la propria vita ad una causa più grande.

Come abbiamo imparato con i capitoli canonici di Guerre Stellari, sopra tutto con i tre classici, i veri protagonisti sono proprio i padri, le madri e i figli. La 'vera forza' sono sempre stati loro. Magari è anche per questo che, nonostante la sua natura fantastica e l'infinità dello spazio, sentiamo vicino quell'universo tanto lontano; vicino a ciò che abbiamo di più caro, la famiglia, il vero e unico motore di ogni avventura meravigliosamente umana.

Si sa - e la psicologia conferma - le fiabe le opere fantasy, terrestri o galattiche che siano, sono scritte con l'aiuto della parte destra del cervello, quella che racconta il vero. Perciò Star Wars è più vicino di quanto non sembri. Il tutto mostrato attraverso inquadrature ben studiate e punti di vista verticali sorprendenti; merito di regista e sceneggiatori, che hanno realizzato, come si accennava all'inizio, un lavoro innovativo ma vicino alla classicità della cara "vecchia" trilogia; una regia che ha saputo creare una intricata tela di rimandi e di ritorni eccellenti, offrendo veri e propri omaggi ad essa: la presenza del Moff Tarkin, con il volto del suo interprete originale Peter Cushing, della principessa Leia-Carrie Fischer, entrambi ben ricostruiti in CGI, conferma.

Si diceva che all'insaputa o quasi dell'Impero crescono i figli, come Jyn Erso, i padri e le madri: veri eroi che fermeranno la tirannia e il lato oscuro della forza; e spesso compiendo veri e propri atti di redenzione. Certo, la Erso, i suoi genitori e la sua compagnia di amici non sono jedi (anche se il pistolero Baze e il cieco ma agguerrito Chirrut si avvicinano ad essi, essendo custodi di un loro tempio), la fede nella forza - quindi della vittoria della luce sulle tenebre - e il coraggio non mancano, e per questo combattono con tenacia ed una certa baldanza, ciascuno nella propria "trincea": Galen Erso nella base imperiale, dove crea il punto debole del killer di pianeti; la figlia e i suoi amici sul campo di battaglia, dove tra la polvere e i colpi di laser si consumano irriducibili, senza ripensamenti, mettendo in scena un vero e proprio racconto "cristologico", di amore e sacrificio.

Uno a uno cadono, però nessuna delle gesta compiute è vana: cadono come semi, che porteranno molto frutto alla generazione di resistenti/uomini vivi (per dirla con Chesterton) successiva. Una battaglia di fanteria che diviene simbolo di qualcosa di più grande, la Speranza. Forse l'unica vera protagonista di Guerre Stellari. Con essa termina il film e poi inizierà il IV episodio.

Dalle stelle a noi arriva una grande lezione: il male non ha mai l'ultima parola, pure sembra invincibile.

In conclusione, mi tornano in mente le parole che Péguy aveva per la Speranza. La speranza è per Péguy una “bambina irriducibile” molto più importante delle sorelle più anziane (fede e carità) che “va ancora a scuola/e che cammina/ persa nelle gonne delle sue sorelle”. Ma è più importante delle sue sorelle perché “E’ lei, quella piccina,che trascina tutto/perché la fede non vede che quello che è/e lei vede quello che sarà/la Carità non ama che quello che è/ e lei ama quello che sarà/Dio ci ha fatto speranza”. Anche se le immagini che ci arrivano sono di una violenza assurda non bisogna perdere la speranza perché è questa speranza bambina che va ancora a scuola che “vede quello che sarà” e “ama quello che sarà”.







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mercoledì 28 dicembre 2016

domenica 25 dicembre 2016

I nostri auguri di un Santo Natale

Qualcosa di più umano dell’umanità.

Nel mistero di Betlemme era il cielo che stava sotto la terra.

«Lo scopo qui è semplicemente riassumere l’insieme delle idee che formano l’idea cattolica e cristiana, e notare che esse sono tutte già cristallizzate nella prima leggenda di Natale. Esse sono tre cose distinte e comunemente contrastanti, che, tuttavia, rappresentano una cosa sola […]. Questa è la trinità dei tre veraci simboli rappresentati dai tre tipi della vecchia leggenda di Natale: i pastori, i re, e l’altro re che guerreggia contro i bambini».

I pastori

«Uomini del popolo, uomini della tradizione popolare.
Essi avevano capito meglio di tutti che l’anima di un paesaggio è una leggenda, e l’anima di una leggenda è una persona».

«La prima [idea] è l’umana aspirazione ad un cielo che sia letterale e locale come una casa. È l’idea perseguita da tutti i poeti e dai costruttori di miti pagani: che un luogo particolare dev'essere il tempio del Dio o la dimora dei beati; che la terra incantata dev'essere una terra; o che il ritorno dello spirito dev'essere la risurrezione del corpo».
«Dio nella caverna», in L’uomo eterno, pp. 211-230.
«In questo il fuoco è, forse, il simbolo più bello e semplice di una verità incessantemente fraintesa. Queste cose elementari, la terra, il tetto, la famiglia, possono sembrare meschine e misere; e in una civiltà cinica molto probabilmente appaiono davvero tali. Ma ciò non è vero […]. Tra le imprese sregolate e vagabonde che riguardano il focolare ve ne sono alcune che hanno reso possibile lo stesso progresso scientifico, così incline a lagnarsi di esse […].

Ma un altro aspetto del focolare ardente rivela la sua affinità naturale con il Natale. È un luogo, così come il Natale è un tempo; e questi vividi limiti sono vitali per un uomo così come per un mistico. Non si tratta soltanto dell’idea che ogni cosa al posto giusto fa la differenza tra le fiamme in una casa e una casa in fiamme. Il focolare è una cornice; ed è la cornice a creare il quadro […]. Questa apparente limitatezza di cui gli uomini si lamentano sull'altare e attorno al focolare domestico è vasta quanto l’intera inventiva umana e dovrebbe incutere rispetto perfino in quanti credono che il culto del Natale sia in realtà solo una fantasia. Anche quanti considerano la grande storia di Betlemme soltanto una favola raccontata vicino al fuoco ammetteranno che questa limitatezza è la prima necessità artistica perfino di una buona favola.

Ma altri credono che il loro pensiero si spinga più in profondità e penetri in una verità inafferrabile per la mente. Per altri ancora tutte le nostre fiabe e anche tutto il nostro forte desiderio per esse traggono il loro ardore da un’unica favola fondamentale, così come tutte le falsificazioni traggono origine da una firma. Ritengono che questa fiaba sia un fatto e che le altre non possano essere apprezzate finché essa non viene riconosciuta come un fatto. Per loro l’individualità è un passo oltre l’universalità; la si potrebbe definire fuga dall'universalità. E ciò in cui credono supera il panteismo così come una fiamma è qualcosa di più di un semplice stato termico. Per loro Dio non è vincolato e limitato dall'essere semplicemente ogni cosa; è anche libero di essere qualcosa. E per loro il Natale avrà sempre a che fare con una realtà concreta; darà non all'etereo nulla ma all'enorme e travolgente tutto una concreta dimora e un nome».
«Il ceppo di Natale e il democratico», in La serietà non è una virtù, pp. 169-174.

«Oltre a questa qualità tangibile e incarnata che rende i regali di Natale così squisitamente cristiani, c’è un altro elemento che ha un effetto spirituale analogo: intendo ciò che potremmo chiamare il loro particolarismo, la loro peculiare singolarità. Ancora una volta, a questo proposito, le nuove teorie – di cui la Scienza Cristiana è la più estesa e lucida – approdano a conclusioni sorprendentemente diverse, anzi opposte: la moderna teologia proverà a convincerci che il Bambino di Betlemme è solo un’astrazione che rappresenta la totalità dei bambini, e la Madre di Nazareth solo un simbolo metafisico della maternità.

La verità è un’altra: la narrazione della Natività ha un valore pienamente universale proprio perché riguarda una sola madre e un solo figlio, singoli e concreti. Immaginiamo una canzone d’amore per una donna altezzosa, talmente penetrante e letale che nessun uomo – dal più umile che spinge l’aratro al principe in sella – possa fare a meno di cantarla da mane a sera; ognuno, senza eccezioni, smetterebbe immediatamente se gli dicessi che la canzone non era stata composta per una donna in particolare, ma solo, genericamente, per le donne in astratto […].

I regali di Natale sono il simbolo di una protesta permanente fatta per conto del dare, come distinto dal quel mero condividere che i moderni sistemi di valore presentano come equivalente o superiore al primo. Il Natale rappresenta questo eccezionale paradosso: dal punto di vista spirituale, se Tommy e Molly si dessero a vicenda una moneta da sei penny, compirebbero una transizione di valore superiore rispetto alla condivisione di uno scellino. Il Natale è qualcosa di meglio che una cosa per tutti: è una cosa per ognuno».
«La teologia dei regali di Natale», in Lo spirito del Natale, pp. 71-79.

I re Magi

«È ancora una strana e vecchia storia quella del modo in cui essi pervennero dalle terre orientali, coronati di maestà regale e vestiti del ministero dei Magi […]. 
Ma venne con loro tutto quel mondo sapiente che aveva osservato le stelle in Caldea e il sole in Persia; e noi non abbiamo torto se vediamo in loro quella curiosità che smuove tutti i sapienti […].
Essi non cercavano fiabe ma verità, e poiché la loro sete di verità era per se stessa sete di Dio, anch'essi hanno avuto il loro premio».

«Il secondo elemento è una filosofia più larga delle altre filosofie. Essa guarda il mondo da cento finestre dove l’antico stoico e il moderno agnostico lo guardano da una sola. Vede la vita con mille occhi appartenenti a migliaia di persone diverse […]. Ha qualche cosa da dire e da dare ad ogni sorta di uomini, comprende i segreti della psicologia, è consapevole delle profondità del male, è capace di distinguere tra reali e irreali meraviglie e miracolose eccezioni, tiene conto dei casi difficili; e tutto ciò con una molteplicità e una sottigliezza e un’immaginazione, secondo la varietà della vita, che è molto al di sopra delle nude e ventose generalità di quasi tutta la filosofia morale antica e moderna. In una parola, in essa c’è di più; essa trova nell'esistenza più materia di meditazione; trae più risorse dalla vita».
«Dio nella caverna», in L’uomo eterno, pp. 211-230.
«Quasi ogni viaggiatore potrebbe scegliere, tra infinità di cose che ha visto, le poche che ha davvero guardato. Mi riferisco a quelle che gli sono apparse con una curiosa chiarezza, tanto da poterle vedere davvero per come egli sa che sono. Potrei quasi affermare che può credere in loro benché le abbia viste. Questa presa di coscienza non segue una regola precisa, ma giunge nel modo più casuale; l’uomo che la conquista può solo raccontare la sua personale esperienza senza tentare alcun confronto critico con altri. In questo senso potrei sostenere che la basilica della Natività a Betlemme contiene qualcosa che è impossibile da descrivere ma che mi spinge, al di là della mia capacità di espressione, a compiere un tentativo disperato in tal senso. Alla chiesa si accede da una porta così stretta che sarebbe corretto definirla un buco, nel quale molti hanno visto, ritengo a ragione, un simbolo del concetto di umiltà. Si racconta che il muro fu trafitto in questo modo per impedire l’ingresso dei cammelli durante il servizio religioso. Personalmente direi che, considerando un obiettivo concreto, intendeva tenere lontani animali molto più pericolosi dei cammelli, ad esempio i turchi […]. Quando la maggiore familiarità con l’ambiente trasforma l’oscurità in crepuscolo e il crepuscolo in un’alba grigia, si ha subito l’impressione di vedere due file di colonne enormi. Sono ricavate da una pietra rosso scuro simile al marmo di quello stesso colore; sono cinte dall'acanto secondo la scuola corinzia. Furono scolpite ed erette per ordine di Costantino. Alla fine di quei pilastri, all'altra estremità della chiesa, si trova la buia scalinata che scende sotto le volte rocciose nella stalla in cui nacque Cristo.

Tra tutto ciò che ho visto, le più convincenti e opprimenti furono queste colonne rosse di Costantino. Per spiegare tale sensazione vi sarebbero mille cose da dire, ma che non possono essere espresse. Non ho mai avvertito così vividamente la grandezza della nostra storia; la religione cristiana è come un enorme  ponte sul mare infinito, che da solo ci collega con gli uomini che plasmarono il mondo e che tuttavia sono scomparsi […]. In ogni caso non riuscirò mai a descrivere questo moto di comprensione per gli elementi bizzarri che avvertii in quel crepuscolo di alte colonne, simili a giganti vestiti di porpora, immobili e con lo sguardo rivolto verso quel buco nel suolo. Qui si fermò la civiltà imperiale che aveva percorso trionfante tutto il mondo; qui alla fine dei suoi giorni giunse trascinando tutta la sua panoplia sulle orme dei tre re. Infatti arrivò seguendo non soltanto una stella cadente, ma una stella caduta, che aveva condotto i Magi in una culla più buia di una tomba. E il signore coronato d’alloro, vestito di rosso carminio scuro, guardò in basso verso questa oscurità e poi, alzando lo sguardo, vide che tutte le stelle del suo cielo erano morte […].

Alcuni sono infastiditi dalla presenza di questo porpora, accanto alla semplice stalla della Natività […]. Ma questo caso specifico, riguardante un contrasto tra lo sfarzo imperiale e la povertà semplice del falegname e dei pastori, è sufficiente a illustrare la strana falsa credenza su cui si basa. Se il punto saliente è che un imperatore sia venuto ad adorare un falegname, è necessario che l’artista attribuisca un aspetto imperiale all’imperatore e umile al falegname; se intendiamo chiarire a persone semplici che in questo luogo i re non sono più importanti dei pastori, è necessario che i re abbiano le corone così come i pastori i bastoni […]. Ebbene, questa concezione popolare dello sfarzo e di una concessione alla comune natura umana nei colori e nei simboli ha contribuito notevolmente a determinare numerosi fraintendimenti riguardo all'entusiasmo iniziale diffusosi dalla grotta di Betlemme all'intero Impero Romano. È curioso che moderni abbiano soprattutto rimproverato al cristianesimo storico non di essere limitato ma di essere vasto. L’hanno biasimato per aver risposto alle aspirazioni di tutte le nazioni, aver soddisfatto i desideri ardenti di molti credi ed essersi rivelato agli occhi degli idolatri come qualcosa di magico al pari dei loro idoli e ai patrioti amabile quanto la terra natale […].

Fu diverso quel riferimento diretto al pathos e al sentimento che rende il quadro del pastore e del Re molto colorato. L’Occidente era ritornato proprio con quell’energia strana e semplice che appartiene alla storia di Betlemme. Costantino non era giunto invano agghindato di porpora per scrutare in quella grotta buia a suoi piedi; tanto meno la stella l’aveva portato fuori strada quando sembrò finire nelle viscere della terra. Gli uomini che lo seguirono passarono, per così dire, attraverso il tunnel basso e a volta dei Secoli Bui; avevano però trovato la via, l’unica via, per uscire da quel mondo di morte e il loro viaggio terminò nella terra dei vivi».
«L’impero senza fine», in La nuova Gerusalemme. Viaggio in Terra Santa, pp. 213-233.

Re Erode

«Se noi non ci rendiamo conto della presenza del Nemico, non solo ci sfuggirà il senso delle Cristianesimo, ma anche quello del Natale […].
La gioia della caverna era simile all'allegria di una fortezza o di una tana di briganti.
Non solo è vero che gli zoccoli dei cavalli di Erode possono essere passati rintronando sulla testa abbandonata del Cristo. Ma in quell'immagine c’è anche l’idea di un avamposto avanzato, di una feritoia nella roccia, di un’apertura sul territorio nemico […].
Questo è forse il più grande dei misteri della caverna.
È evidente che, sebbene agli uomini sia stato detto di cercare l’inferno sotto la terra, in questo caso era il cielo che stava sotto la terra. In questa strana storia c’è come l’erompere del cielo».

«E il terzo punto è questo: che, mentre c’è abbastanza carattere locale per i poeti, e c’è più larghezza che in ogni altra filosofia, il Cristianesimo è anche una sfida e un combattimento. Mentre è deliberatamente esteso fino ad abbracciare ogni aspetto della verità, è ancora rigidamente schierato contro ogni sorta di errore. Convince ogni sorta di uomini a combattere per lui, porta nel combattimento ogni sorta di armi, allarga la sua conoscenza delle cose pro e contro le quali si combatte con tutte le arti della curiosità e della simpatia; ma non dimentica mai che sta combattendo. Proclama la pace in terra, ma giammai dimentica perché ci fu guerra in cielo».
«Dio nella caverna», in L’uomo eterno, pp. 211-230.
«Cominciai a studiare più attentamente la teologia cristiana, che molti detestavano e pochi si prendevano la pena di studiare. Mi accorsi ben presto che corrispondeva a molte di queste esperienze di vita. Molto tempo dopo, padre Wagget (per citare un altro valido membro del gruppo anglo-cattolico) mi disse, mentre eravamo sul Monte degli Ulivi, davanti al Getsemani: “Beh, dovrebbe essere chiaro a tutti che la dottrina del Peccato Originale è l’unica visione lieta della vita umana”».
«Il delitto dell’ortodossia», in Autobiografia, pp. 179-208.

“Madre di Dio”, disse il ramingo,
“sono un semplice re,
e non oso porre una domanda da santo,
non chiederò di vedere una cosa segreta.

[…]

Ma in nome di questa piccola terra,
di questo piccolo paese che conosco,
chiedo se ciò che è ora, sarà per sempre,
o se i nostri cuori si spezzeranno lieti,
vedendo alla fine il nemico fuggire?

Quando l’ultimo arco sarà a pezzi, Regina,
e l’ultima lancia sarà scagliata,
nel tramonto di un triste cielo verdastro,
brandendo in alto i resti di una Croce,
la tiepida erba dell’Ovest come letto,
ritorneremo a casa alla fine?”

[…]

E giunse una voce umana ma più alta,
come una casetta abbarbicata tra le nuvole.

[…]

“Gli uomini dell’Est scrutano le stelle,
per segnare gli eventi e i trionfi,
ma gli uomini segnati dalla croce di Cristo
vanno lieti nel buio.

Gli uomini dell’Est studiano le pergamene,
per conoscere i destini e la fama,
ma gli uomini che hanno bevuto il sangue di Cristo
vanno cantando di fronte alle ingiurie.

Il sapiente conosce tutto il male
che giace sotto un albero ritorto,
dove il perverso si consuma nel piacere,
e gli uomini sono stanchi di vino guasto
e nauseati da mari scarlatti.

Ma tu e tutta la stirpe di Cristo
Siete ignoranti e coraggiosi,
e avete guerre che a stento vincete
e anime che a stento salvate.

Non dico nulla per il tuo conforto,
e neppure per il tuo desiderio, dico solo:
il cielo si fa già più scuro
ed il mare si fa sempre più grosso.

La notte sarà tre volte più scura su di te
E il cielo diventerà un manto d’acciaio.
Sai provar gioia senza un motivo,
dimmi, hai fede senza una speranza?”

[…]

E scomparve dicendo queste parole
e lui non rispose nulla,
ascoltò solamente, mentre era in piedi.

[…]

Su vaste distese ventose e oltre
Alfred attraversò la boscaglia,
sferzato dalla gioia dei giganti
quella gioia senza un motivo.

[…]

Il Re andava cercando uomini del Wessex,
come si separa un chicco dalla paglia,
i pochi ancora vivi e disposti a morire,
che ridono, come teschi sparsi sulla terra,
sconfitti in battaglia e rivolti al cielo
con il loro riso eterno.
«La visione del Re», in La ballata del Cavallo Bianco, pp. 31-53.

“Sebbene abbia affidato questa terra a Nostra
Signora,
che mi aiutò ad Athelney,
sebbene non esistano alberi più maestosi,
prati più rigogliosi e colline più serene
di quelli del giardino della Madre di Dio,
tra la riva del Tamigi e il mare,

so che anche lì le erbacce attecchiranno
più in fretta di quanto possiamo bruciarle;
e sebbene essi vaghino e si disperdano,
tra molti secoli, tristi e lenti,
– io ho una visione – io so
che i pagani ritorneranno.

Essi non verranno su navi da guerra,
non devasteranno col fuoco,
ma i libri saranno il loro unico cibo,
e con le mani impugneranno l'inchiostro.

Non con lo spirito dei cacciatori
o con la feroce destrezza del guerriero,
ma mettendo a posto ogni cosa con parole morte,
ridurranno le bestie e gli uccelli a burattini
ed il vento e le stelle a una ruota che gira.

Avranno l’aspetto mite dei monaci,
pieni di fogli e di penne;
e voi guarderete alle vostre spalle ammirando
e desiderando un giorno come quelli di Alfred,
in cui, almeno, i pagani erano uomini.

[…]

Voi li riconoscerete da questi segni:
lo spezzarsi della spada,
e l'uomo che non è più un cavaliere libero,
capace di amare o di odiare il suo signore.

Sì, questo sarà il loro segno:
il segno del fuoco che si spegne,
e l'Uomo trasformato in uno sciocco,
che non sa chi è il suo Signore.

Anche se arriveranno con carta e penna
E avranno l’aspetto pulito dei chierici,
da questo segno li riconoscerete,
dalla rovina e dal buio che portano;

da masse di uomini devoti al Nulla,
diventati schiavi senza un padrone.

[…]

Dalla presenza di peccatori,
che negano l'esistenza del peccato,

da questa rovina silenziosa,
dalla vita considerata una pozza di fango,
da un cuore spezzato nel seno del mondo,
dal desiderio che si spegne nel mondo;

dall'onta scesa su Dio e sull'uomo,
dalla morte e dalla vita rese un nulla,
riconoscerete gli antichi barbari,
saprete che i barbari sono tornati.

Quando si fa un gran parlare di moda e correnti,
e di saggezza e destino,
date il benvenuto all’idolatria che non muore,
che è più triste del mare.

Come gli uomini potranno sconfiggerla,
o se la Croce si innalzerà di nuovo,
con la carità o la cavalleria,
la mia visione non lo dice; e io non vedo altro;
ma ora, pur nel dubbio, cavalco
verso la battaglia nella pianura”.
«La cura del cavallo», in La ballata del Cavallo Bianco, pp. 221-251.







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