sabato 11 marzo 2017

Cappellano militare: Il padre

«Fammi sentire un pezzo». Quando era mio padre a dirlo, l'emozione era più grande che mai. Perché quando sei bambino qualcosa dentro di te ti dice che tuo padre sa fare tutto, è il migliore in tutto, quindi il fare qualcosa davanti a lui è insieme onore e responsabilità.

Poi cresci e tutto cambia, stringendo la figura del padre dentro l'orizzonte insufficiente delle norme: da qui iniziano le incomprensioni.

Il padre deve sempre essere quel sogno di vita per il quale combattere ogni giorno: non si cresce secondo regole, ma per imitazione.


Don Carlo Pizzocaro






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Salmerìa 10.2017

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venerdì 10 marzo 2017

Cappellano militare: Camminare e seguire

«Gli offrirai un calice d’oro e non Gli dai un bicchiere d’acqua fresca: che beneficio ne avrà?» [s. Giovanni Crisostomo].

Ieri mi è stato chiesto quale sia la differenza tra camminare e seguire.

Il nostro camminare è un seguire LUI, che deve sempre stare davanti, sempre per primo. Ma per seguirLO bisogna camminare come si cammina in montagna: ponendosi accanto il più piccolo, il più lento, il più debole.

Nel nostro camminare, "seguire" è la direzione, "accompagnare" è il passo. Occhio: chi perde il passo non arriva.


Don Carlo Pizzocaro






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giovedì 9 marzo 2017

Cappellano militare: Regola d'oro

Regola d'oro, come d'oro è la fede, prezioso anello che in Cristo lega i cuori di due, finché diventino uno.

Regola d'oro, come d'oro è il tesoro, ricercato in ogni avventura e in ogni vita.

Dove sta questo tesoro? «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore» [Ger 31,34].

La grande avventura è un viaggio nel profondo, un volare che è un affondare: «Tu autem eras interior intimo meo et superior summo meo» [S. Agostino].

Nel profondo, il cuore dell'uomo è oro, tesoro prezioso che unisce i cuori tra loro, unendo la terra al Cielo.


Don Carlo Pizzocaro






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Lettera dal fronte: Dacci oggi la nostra eresia quotidiana/01: Donatismo strisciante e pelagianesimo dilagante

Il Cardinale del Sacco ha deciso di far partecipi i suoi 12 lettori di tutta una serie di riflessioni che fa ogni volta che si reca a Messa in qualche Chiesa ma anche più in generale ogni volta che è costretto ad ascoltare o frequentare il mondo cattolico che conta. Perché si sa: il bene non fa notizia e nostro Signore ci ha ammonito severamente: «guai a quando parleranno bene di voi». Attenzione però: queste riflessioni (di cui questa è solamente la prima e si spera che con l’aiuto di Dio proseguiranno) ci devono portare ad ammette una profonda quanto amara verità: è facile entrare nell'eresia perché è opera del Nemico che si traveste da angelo di luce. Non giudichiamo pertanto, ma vigiliamo, esortiamo ed ammoniamo cercando di assomigliare quanto più possibile ai grandi Dottori ed ai Santi catechisti e predicatori ma ancor di più alla Vergine Maria (cui spetta il titolo di vincitrice di tutte le eresie) per poter affermare sempre la Verità ma senza mai vantarcene ed appropriarcene indebitamente.


Vi è mai capitato di sentire qualche parroco, se non addirittura qualche Vescovo, che vi invitano a partecipare alle riunioni per il nuovo Anno Pastorale? E quanti sacerdoti dedicano fondi e tempo ad organizzare e gestire calendari e foglietti delle attività della loro Parrocchia? Ma, similmente, vi sarete sicuramente imbattuti in parroci (magari li stessi di cui sopra) che si preoccupano della preparazione della Messa che celebrano, oppure che affermano che la Messa ed i sacramenti vanno vissuti in Parrocchia e non dove si vuole. Ma, d’altro canto, non vi sono anche laici che compiono veri e propri pellegrinaggi domenicali anche di svariati km per poter partecipare alla Messa con il gruppo di cui fanno parte perché lì si sta meglio?

Mi sembra giusto spoilerare dove voglio andare a parare perché – non neghiamo – noi per primi agiamo in questo modo, dicendo e facendo esattamente ciò che ho appena descritto. Comportamenti di questo genere, se fatti coscienziosamente e in maniera volontaria, ci piaccia o non ci piaccia, denotano una tendenza pelagiana e donatista sia nelle anime da cui lo abbiamo appreso che dalla nostra che magari ci crede.

Ma, attenzione, questo deve essere fatto in maniera cosciente e volontaria e deve riguardare anche un’attitudine più profonda: il giudizio proprio e il voler intendere la religione ed i sacramenti solo, o almeno in via esclusiva, da un punto di vista sentimentalistico. Di per se, infatti, le affermazioni fatte poc'anzi sono giuste ed i comportamenti descritti, se presi per il giusto verso, sono identici all'agire di fior fiore di Santi (che, dunque, non erano eretici). Ma, per l’appunto, devono essere prese e vissute per il giusto verso, che potremmo definire con il termine sentire cum Ecclesia a cui, ovviamente, si contrappone il giudizio proprio causa di molti (se non tutti: dimentichiamo sempre che sia il peccato degli Angeli che dei Progenitori riguardò la superbia) peccati.

Mi spiego meglio per non attirare su di me le ire funeste del buon cattolico che va a Messa (beato lui) dove sa di trovare un sacerdote che celebra degnamente o che si adopera nelle molteplici attività parrocchiali, ma anche dei progressisti (figli e nipoti di tutti gli eretici della bimillenaria storia della Chiesa in quanto il modernismo è la sintesi di tutte le eresie) che hanno già capito cosa voglio dire (si sa: i figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della luce...).


Il donatismo si sviluppò in Africa sul finire del IV secolo anche come conseguenza delle ultime quanto terribili persecuzioni anticristiane. I seguaci di questa vera e propria chiesa scismatica affermavano che i sacramenti celebrati da sacerdoti o ministri lapsi non erano validi: con il termine lapso si indicavano quei cristiani che durante le persecuzioni, generalmente per paura, avevano abiurato Cristo per poi chiedere il perdono e il reintegro nella Chiesa una volta cessate le ondate di persecuzione. In poche parole, i donatisti affermavano che la santità personale inficia quella del sacramento cosicché un’Eucarestia celebrata da un lapso sarebbe stata meno valida e meno santa di quella celebrata da un confessore della fede. Allo stesso modo, si cercava di non ammettere più nelle celebrazioni e nelle comunità i lapsi perché avrebbero intaccato la santità della Chiesa. Come vedete si tratta di un’eresia che, lungi dall'essere una discussione inutile e vaga, era invece molto concreta affascinando intere comunità cristiane e ponendo le Chiese locali una contro l’altra: da una parte i santi, dall'altra i peccatori. Contro di essi si scagliò Sant'Agostino, cui bisogna riconoscere il merito di aver sconfitto questa eresia e di aver fatto progredire ancora di più la Chiesa nella comprensione della Rivelazione. La risposta di Agostino è semplice e, in quanto tale, è geniale: il ministro che celebra un qualsiasi Sacramento è solamente il mezzo che Dio usa per dispensare la grazia tra gli altri uomini. Uomo come gli altri, conosce anch'egli le tentazioni: il suo status di consacrato non lo lascia al riparo di peccati anche gravissimi. Ma la santità e la validità dei sacramenti non possono dipendere dalla singola persona in quanto significherebbe ammettere l’imperfezione dell’opera di Dio che si legherebbe indissolubilmente al valore degli uomini. I sacramenti invece valgono e sono perfetti di per sé, e non dipendono dal celebrante se non dalla necessaria materia e forma degli stessi in quanto Cristo è l’unico ed eterno sacerdote e lo Spirito Santo è colui che li attua nella Chiesa rendendola sempre santa.


Se Donato parlava di purezza dovuta a comportamenti riguardanti la fede, Pelagio (grosso modo negli stessi anni) poneva invece la salvezza quasi unicamente nei mezzi umani cancellando o fortemente diminuendo il carattere proprio del peccato originale e della redenzione operata da Cristo: Agostino sconfisse anche quest’altra eresia, forse meno attraente del donatismo ma molto più perniciosa in quanto essenzialmente pratica. Pelagio affermava infatti che il sacrificio di Cristo avesse un valore di tipo emulativo e che l’uomo potesse salvarsi e giustificarsi da solo senza l’aiuto, o con solamente una minima traccia, della grazia: la salvezza sarebbe stata riposta solamente nelle azioni che, insieme ad un comportamento rigido e severo, avrebbero apportato i meriti necessari alla salvezza. Agostino seppe dimostrare invece che il motore iniziale di ogni grazia è lo Spirito Santo e che, pertanto, ogni volta che l’uomo compie del bene accetta docilmente e liberamente la volontà di Dio: le sue azioni sono comunque meritorie perché rispondono al mandato di Cristo e rinnegano la natura umana che rifiuta la compassione e la misericordia. La grazia, dunque, è data da Dio a tutti gli uomini che si salvano sia per la propria fede che per le loro opere, non solo per l’una o per l’altra: la grazia va richiesta e va accettata in quanto dono gratuito e libero di Dio che vuole che ogni creatura si salvi.

È evidente, fatta questa lunga digressione storico-teologica, come il donatismo ed il pelagianesimo siano presenti, sebbene negati, nella vita quotidiana della Chiesa e che tutti noi siamo portati, volenti o nolenti, ad applicare queste due categorie nel nostro approcciarci sia ai sacramenti che nella pratica delle opere di misericordia. Donatismo e Pelagianesimo, secondo il sottoscritto, infatti, non so che due facce della stessa medaglia, vale a dire la pretesa indipendenza ed autoesaltazione dell’uomo nei confronti di Dio; queste due eresie, molto gravi perché seducenti e facilmente attuabili, sono inoltre lo specchio della prima eresia in assoluto che è il peccato degli angeli: Lucifero infatti non negò Dio nella sua ribellione, ma lo rifiutò come suo Signore (disse infatti non serviam e non non credo) dichiarando di essere egli il padrone di sé stesso. Se, infatti, io sono buono, e mi ritengo tale vantandomene anche, le mie azioni saranno buone: ma se sono un buon sacerdote, i sacramenti che io celebro saranno logicamente buoni (= donatismo). Vieppiù: se io sono buono, a cosa mi serve la grazia? In quanto buono non potrò che operare il bene e quindi mi procurerò da solo i mezzi per la salvezza: il problema della validità dei sacramenti è superato dal fatto che io mi salvo per il fatto di non commettere il male (= pelagianesimo). È interessante notare inoltre che il pelagianesimo si diffonda successivamente, sebbene di pochi anni, al donatismo e non viceversa: si tratta infatti di un approdo logico per una teoria fortemente elitaria e suadente. È doveroso accennare, poi, che il liberalismo potrebbe essere un valido compagno di viaggio nel liberalismo moderno e contemporaneo in quanto la libertà personale e la libera iniziativa in ogni campo (in ambito spirituale = americanismo) è posta come metro assoluto di giudizio e di condotta di vita.

Riflettiamoci un attimo e spostiamo queste questioni al nostro martoriato XXI secolo: non sentiamo spesso i nostri pastori affermare che nella mia parrocchia facciamo questo, facciamo quest’altro etc e che tutto va bene? Similmente i nostri vescovi non affermano ormai da un paio di decenni lo slogan meno messe [numericamente intese] e più messa [intesa come espressione di fede matura, etc etc]? E non pensate anche voi che si sta cavalcando su due staffe, la cattolica e la donatista o la pelagiana? In campo laicale inoltre gli esempi sono altrettanto numerosi, a cominciare da alcuni fedeli che rifiutano categoricamente la confessione sacramentale da sacerdoti che conoscono oppure che, viceversa, evitano di confessarsi da sacerdoti che non appartengono al loro movimento. E in fin dei conti ognuno di noi spesso e volentieri tende a cadere nell'uno o nell'altro caso: non neghiamolo ma neanche meravigliamoci più di tanto in quanto il demonio come un leone si muove attorno a noi per sbranarci. È corretto invero parlare di semi-donatismo e semi-pelagianesimo od anche di atteggiamenti donatisti o pelagiani in quanto nessuno di noi crede e professa liberamente, coscienziosamente e volontariamente l’una e l’altra teoria.

Ma dobbiamo stare attenti e vigilare, dosando sapientemente il rapporto che esiste (è innegabile) tra coscienza soggettiva e fatto oggettivo, tra verità di fede e atto pratico.

In campo donatista. Sono costretto a partecipare a sacramenti celebrati in maniera oggettivamente indegna? Certo che no. Ma non sono neanche tenuto a ritenermi più santo degli altri uomini per il fatto che non partecipo a quelle che spesso sono tutto tranne che messe cattoliche. Io prima di tutto devo riformare la mia vita, cercando la maniera più degna possibile (perché la perfezione è solo di Dio) di celebrare e vivere i misteri liturgici e della fede e conseguentemente pregare affinché anche i miei fratelli capiscano e vivano quanto più fedelmente la loro vita e, se sacerdoti, il loro servizio alla Chiesa. Questo significa che devo tacere? No, affatto: ammonire i peccatori e consigliare i dubbiosi rimangono due valide opere di misericordia spirituale, ma non posso neanche farlo in maniera violenta (perché potrebbe dare scandalo) né ritenendomi meglio degli altri. Da dove prendo queste considerazioni? Dalla parabola evangelica del pubblicano al tempio.

In ambito pelagiano. Non devo più partecipare alle attività (culturali, artistiche, sociali, caritatevoli) nella mia parrocchia per non peccare di pelagianesimo? No, certo che no. Semplicemente bisogna dedicare (almeno) lo stesso tempo ad opere di natura spirituale in quanto una cosa sola è quella che vale. Il giusto atteggiamento per evitare la perniciosa eresia del pelagianesimo ce lo da il Vangelo: Marta e Maria, non solo Marta né solo Maria, tant'è che anche le suore di clausura sono tenute alle pratiche di carità ed alle opere di misericordia.

Guardiamo a Maria, umile e alta più di ogni altra creatura, e chiediamole la grazia di poter sempre dire la verità ricordandoci tuttavia che essa ci è stata data dall'alto e che non è nostra, e da lei prendiamo esempio. Non c’è stato infatti miglior teologo sulla terra che la Vergine: ella dice che grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente. Non nega pertanto il fatto che è grande ma neanche ha la pretesa di essere grande da se stessa. Ella è grande perché Dio l’ha beneficata di tutte le grazie. E lei, umilmente, le ha accettate. Non le ha né pretese né richieste indebitamente. Se avesse negato l’una o l’altra verità non sarebbe stata veritiera.

In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas (unità nelle cose necessarie, libertà in quelle dubbie, carità in ogni casa) deve essere il nostro motto per non cadere in queste come nelle altre eresie.


Cardinale del Sacco






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mercoledì 8 marzo 2017

Congedo con onore: Nanowar Of Steel: Tutte Cagne







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Cappellano militare: Il segno

A Giona non è stato dato alcun segno: lui è stato fatto segno per gli altri.

Nostra vocazione non è riempirci di segni per trovarLo, ma riempirci di LUI per segnalarLo.


Don Carlo Pizzocaro






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lunedì 6 marzo 2017

Come eravamo: Questo è il digiuno che voglio

«Tu GRADISCI, SIGNORE, il cuore penitente». Bisogna comprendere bene il significato della parola «penitenza». Dobbiamo ricordarci che penitenza è sinonimo di conversione: passaggio da un atteggiamento non vero o meno vero ad un atteggiamento più vero. Viene alla mente il termine evangelico di metanoia, e infatti metanoeite si traduce anche con: fate penitenza.

Che cose è la conversione o la penitenza se non il nostro sguardo che incontra e il nostro cuore che si spalanca, la nostra libertà che aderisce al «Dio vivente»? Dio non è il Dio dei morti o dei nostri pensieri, è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; è il Dio che si è legato e reso sensibile, tangibile nella sua potenza dentro la storia; in questa storia è fiorito Cristo, Dio che si è fatto uomo. Penitenza è incontrare con gli occhi, spalancare il cuore, aderire con la nostra libertà a Lui. Guardarlo, aderirgli, amarlo significa cambiare tutto: non «molto» delle nostre cose, ma «tutto» e continuamente tutto.

IL PERICOLO DEL FORMALISMO
«Grida a squarciagola: Mi ricercano ogni giorno, bramano di conoscere le mie vie, come un popolo che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio. Mi chiedono giudizi giusti, bramano la vicinanza di Dio» (Is 58, 1 ss). Non è questa di Isaia la descrizione della nostra vita?

Noi siamo dentro un regime di vita che è quello di gente che ogni giorno cerca Dio, brama di conoscere le sue vie: siamo sommersi da discorsi e da parole, siamo penetrati da tutte le parti da pensieri e da emozioni, siamo carichi anche di rimorsi e dì propositi. Ma l'orrore della nostra vita è che essa può restare formale. Questo è il terribile tranello in cui la menzogna, Satana, ci spinge a cadere: che la nostra vita dedicata a Dio resti una pura formalità.

Com'è acuto Isaia! «Perché digiunare se tu non lo vedi, mortificarci se tu non lo sai?».

Vogliamo stabilire noi il tipo di corrispondenza, vogliamo fissare noi la modalità e i termini del centuplo quaggiù.

Riafferriamo così quello che abbiamo donato. Questa è, in breve, l'origine di tutta la nostra titubanza e di tutta la nostra incertezza, della delusione che ci prende alla gola.

Invece la modalità con cui il Signore si rende presente appartiene a Lui, al Mistero reso carne dentro il seno di una donna, che prosegue la sua permanenza nel tempo e nella storia dentro la nostra carne, costituendo la forma della nostra vocazione. Noi gli rimproveriamo il fatto che non si faccia vedere e comprendere come vorremmo. Allora la nostra vita rimane formale.

I PROPRI AFFARI
Di che cosa, dunque, riempiamo la nostra vita? «Nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari [dentro la storia della vostra vocazione afferrate e trattate persone, cose e voi stessi come affari vostri, secondo la misura con cui voi decidete. Possedete invece che offrire]. Angariate gli operai [manipolate persone, cose, voi stessi e il tempo secondo il vostro parere]. Voi digiunate tra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui [con estraneità tra voi]. Non digiunate più come fate oggi [non vi ho chiamato alla penitenza perché rimanga un fatto esteriore, senza cuore e con tutto il peso dei sasso dei vostri tornaconti, delle vostre misure, delle vostre convenienze, dei vostri piaceri, del vostro orgoglio]. È forse come questo il digiuno che bramo: piegare come un giunco il proprio capo [subire la vocazione cristiana], usare sacco e cenere per letto [privarsi di cose che si potrebbero ottenere]; forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore [subire quello che siamo stati chiamati a vivere, la forma di vita in cui Cristo richiama con forza e insieme con tenerezza]?».

IL VERO DIGIUNO
Il profeta descrive poi il vero digiuno: «Questo è il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique». Questo - dice Cristo - è il significato della penitenza che ti ho chiamato a vivere, della tua adesione a me: la tua vita deve essere liberata. Le tue azioni, il rapporto con gli altri, con le cose, con te stesso, con me devono diventare liberi, cioè non pietistici non formalizzati, non con il capo chino, secondo l'icastico paragone di Isaia.

In che cosa consiste questa liberazione, se non nel guardare e nell'usare persone, cose, se stessi secondo destino del vivere di ogni uomo e di ogni cosa che è Cristo?

Prosegue Isaia: «Togliere i legami dal giogo». Un legame diventa giogo quando non realizza più il nostro rapporto con il destino, con Cristo, quando non è più in funzione della gloria del Padre. Qualsiasi rapporto, se non è in funzione della gloria di Cristo, è un giogo e la nostra vita, presto o tardi, lo capisce. Togliere i tegami dal giogo: che i rapporti con noi stessi, con gli altri e con le cose siano scala al Mistero, segno vissuto del rapporto con il Mistero, espressione dell'appartenenza.

Il riverbero immediato di questo, che ne diventa il segno inoppugnabile, è l'aiuto al bisogno degli altri, sovvenire alle loro necessità, alla debolezza, alla fragilità.

Solo se i rapporti saranno tesi ad esprimere l'appartenenza a Cristo e, come conseguenza, sarà vibrante la sensibilità nell'aiutare gli altri, secondo la gerarchia stabilita da Dio, solo allora «la tua luce sorgerà come l'aurora [sarà tutto luminoso, sarà tutto chiaro] e la tua ferita si rimarginerà [in una letizia umile, senza equivoco]».

COME L'AURORA
«Allora la tua luce sorgerà come l'aurora». Non possiamo immaginarci la modalità di questo; è anch'essa decisa dal Mistero. Lo dice il vangelo di san Matteo: un giorno c'è lo sposo e si gioisce e un altro giorno non c'è lo sposo e allora emerge tutto il peso (cfr Mt 9,15). C'è lo sposo e la penitenza diventa resurrezione e gioia anche nel dolore: «Sovrabbondo di gioia nella mia tribolazione» (2 Cor 7,4). E quando lo sposo sembra mancare, noi l'attendiamo nella pazienza, cioè nella penitenza.

Che la penitenza non sia più una formalità subita da un capo piegato come quello di un giunco, ma sia domanda, chiara come l'aurora. «Allora la gloria del Signore ti seguirà», come una madre che veglia sul bambino che ha appena imparato a camminare.

«Allora lo invocherai e il Signore ti risponderà; implorerai aiuto ed egli dirà: "Eccomi"». Sorprendere nello sviluppo della vita di ogni giorno la voce di questo «eccomi», il contenuto di questa risposta di Cristo alla nostra domanda è il segno che la nostra vita è domanda non formalistica, ma tesa a Lui.

Che la Quaresima porti qualcosa di nuovo all'inizio di ogni nostra giornata come rapporto con Cristo.


“Questo è il digiuno che voglio.” Inserto in CL-Litterae Communionis, 3 (1992).






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Cappellano militare: Occhi grandi, passo piccolo

Davanti a sé la Gloria di Dio, perché la sua immensità dia la misura giusta agli occhi; di fianco i più piccoli, perché il loro passo scriva la strada sotto i piedi.

Occhi grandi, passo piccolo; guardare Dio per vedere come Dio e camminare tra gli uomini per portare molti fratelli. Queste sono le pecore.

La capre cosa fanno di sbagliato? Molto semplice: fanno il contrario. Hanno una visione piccola, che li illude di fare grandi passi.

«Il nostro paesaggio è quello che noi siamo, noi siamo il nostro paesaggio. Siamo ciò che contempliamo. Abbiamo dentro di noi il nostro Sole, l’erba, i tronchi scuri delle querce, la solennità dei nostri cipressi, il frusciare dei ruscelli, la sinuosità delle nostre strade bianche. Tutto questo si unisce in una sola parola: bellezza» [Paolo Menchetti].

È bruciata la strada di chi cammina fissandosi i piedi: è la Gloria che fa bello il passo.


Don Carlo Pizzocaro






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