domenica 4 febbraio 2018

Lettera dal fronte: La libertà d’espressione e il “dovere di lasciarsi offendere” (prima parte)

Il 30 gennaio scorso la IV sezione della Corte Europea dei diritti umani ha ritenuto che le autorità amministrative lituane abbiano violato la libertà d’espressione dell’azienda nazionale Sekmadienis Ltd. applicandole una sanzione pecuniaria di 580€ per aver affisso nella città di Vilnius nell’autunno 2012 manifesti pubblicitari contenenti le immagini realizzate dal signor Robert Kalinkin, che raffigurano Gesù e Maria in pose lascive e ammiccanti1.


La multa era stata irrogata dall'Autorità nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori, che aveva ricevuto segnalazioni telefoniche nelle quali i cittadini lamentavano che la pubblicità era immorale e offensiva per le persone religiose. L’Autorità si rivolgeva allora all'Agenzia lituana sulla pubblicità – un organismo di autoregolamentazione composto da specialisti in tema di annunci pubblicitari – che forniva un parere nel quale riteneva che gli annunci violassero i principi generali, l’art. 1 e l’art. 13 del Codice etico in materia di pubblicità e affermava che “la pubblicità può portare all'insoddisfazione delle persone religiose. [Gli annunci pubblicitari potrebbero essere visti come] umilianti e degradanti nei confronti delle persone, a causa della loro fede, convinzioni o opinioni. Le persone religiose reagiscono sempre in modo molto sensibile a qualsiasi uso di simboli religiosi o personalità religiose nella pubblicità, quindi suggeriamo di evitare la possibilità di offendere la loro dignità2. L’Agenzia suggeriva anche, saggiamente, “di trovare altri personaggi per comunicare l'unicità del prodotto3.

L’azienda si difendeva sostenendo che nelle pubblicità il nome di Gesù non era utilizzato come riferimento a una personalità religiosa ma, piuttosto, come un’“interiezione emozionale”, di uso comune nel linguaggio lituano, per creare un effetto comico. La difesa proseguiva ancora affermando che le persone ritratte all’interno della campagna pubblicitaria per la collezione primavera-estate 2013 non potevano essere considerate come somiglianti in modo univoco a figure religiose e che se anche lo fossero state, tale raffigurazione era da considerarsi esteticamente piacevole e non irrispettosa, a differenza di vari articoli religiosi kitsch e di bassa qualità tipicamente venduti nei mercati.

Difficile ritenere, tuttavia, che la figura femminile rappresentata sugli annunci pubblicitari non fosse allusiva alla Vergine Maria giacché era ritratta con un’aureola, una corona di spine, due orecchini a forma di croce, un tatuaggio con la parola mother sull’avambraccio sinistro, un tatuaggio ritraente un cuore umano trafitto da una spada sul braccio destro – richiamo alla raffigurazione della devozione al Cuore Immacolato? – e nella posa di fare scorrere fra le dita un rosario. A completare il quadro la scritta “Madre di Dio, che vestito!4. Così come praticamente impossibile non cogliere un evidente riferimento a Gesù nella seconda figura maschile, laddove questa è raffigurata con un’aureola, capelli lunghi e barba, una corona di spine sul capo, due tatuaggi di un intreccio di filo spinato sulle braccia nonché due croci rovesciate sugli avambracci. Il tutto arricchito dal sottotitolo “Gesù, che jeans!”. Anche la terza immagine che raffigura i due soggetti insieme richiama alla mente il tradizionale soggetto artistico cristiano delle “pietà”, nella quale Maria custodisce il corpo del Figlio senza vita. Il sottotitolo, a fugare ogni dubbio: “Gesù, Maria! Che stile!”.

E, in effetti, i giudici europei hanno riconosciuto che “tutti gli elementi visivi degli annunci pubblicitari insieme considerati creano un’inconfondibile somiglianza tra le persone rappresentate in esse e le figure religiose” (§75), mentre l’azienda ricorrente non tentava ulteriormente di negare, di fronte ai giudici di Strasburgo, il richiamo religioso delle immagini utilizzate.

La Corte riconosce in via generale, ispirandosi ai propri precedenti, che se in ambito politico e in questioni che riguardano l’interesse pubblico i limiti alla libertà d’espressione costituiscono un’eccezione, una più ampia discrezionalità – nota come margine di apprezzamento – è riconosciuta ai singoli Stati quando questi regolamentano la libertà di espressione in relazione a episodi che possono offendere intime convinzioni personali nella sfera della morale o, in particolare, della religione (§73); tale discrezionalità è ulteriormente ampliata dalla circostanza che l’utilizzo delle immagini religiose aveva, nel caso specifico, la finalità di pubblicizzare una linea di abbigliamento e non era destinato a contribuire a un qualsivoglia dibattito pubblico riguardante la religione né una qualsiasi altra questione di interesse generale (§76). I giudici ricordano, inoltre, che l’esercizio della libertà di espressione porta con sé doveri e responsabilità e, tra questi, nel contesto dei credi e dei convincimenti religiosi, vi è sicuramente il requisito di garantire ai believers il pacifico godimento dei diritti riconosciuti ai sensi dell’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che tutela la libertà di pensiero, coscienza e religione), incluso il dovere di evitare per quanto possibile un’espressione che sia gratuitamente offensiva verso gli altri e irriverente, con riferimento a ciò che è oggetto di venerazione (§74).

Tuttavia, nel proseguo della motivazione, dopo aver affermato di non ritenere che le immagini fossero gratuitamente offensive o irrispettose (§78), i giudici lituani sono censurati per non aver fornito sufficienti e rilevanti argomentazioni per giudicare le immagini contrarie alla morale pubblica (§79): i giudici europei ritengono infatti che le autorità lituane non abbiano dimostrato in che modo l’utilizzo delle immagini sacre nel caso specifico sia stato offensivo (ibidem). Parimenti, i giudici lituani non avrebbero fornito una motivazione convincente circa il fatto che l’utilizzo dei nomi di Gesù e di Maria nelle pubblicità costituisse un riferimento religioso e non semplicemente un’interiezione emotiva di uso comune in Lituania, né avrebbero dimostrato in che modo gli annunci proponevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa.

La Corte insiste nel ribadire che non ha motivo di dubitare del fatto che il centinaio di persone che hanno denunciato la pubblicità debbano essere state effettivamente offese e, tuttavia, “la libertà di espressione si estende anche alle idee che offendono, scioccano o disturbano i consociati” (§81), dal momento che “in una società democratica pluralista coloro che scelgono di esercitare la libertà di manifestare la propria religione non possono ragionevolmente aspettarsi di essere esenti da ogni critica. Essi devono tollerare e accettare la negazione dei propri convincimenti religiosi da parte di altre persone” (ibidem). La perifrasi, sciolta in parole semplici, sta a significare che chi decide di credere, deve essere disposto a essere offeso, scioccato e disturbato dalla libertà d’espressione altrui. In tutto ciò i giudici della la Sez. IV della Corte EDU sembrano, tuttavia, dimenticare che i limiti all’esercizio della libertà d’espressione, previsti all’art. 10 §2 della Convenzione europea, sono ben più ampi di quelli contemplati dall’art. 9 §2, relativo alle limitazioni della libertà di pensiero, coscienza e religione5. Il richiamo generico al principio, consolidato nella giurisprudenza europea, secondo cui la libertà di espressione “copre” anche la manifestazione di idee che offendono, lascia piuttosto perplessi; infatti, un conto è un’offesa quale conseguenza di una manifestazione di un dissenso, di una critica, di un’alternativa culturale, un conto è un’offesa quale conseguenza di un messaggio pubblicitario che persegue una mera finalità di promozione commerciale. Pare a chi scrive che trattare allo stesso modo le due situazioni non sia soluzione giuridicamente convincente, poiché nel secondo caso si finisce non per difendere un’idea, quanto piuttosto un interesse meramente commerciale che certamente è meritevole di rispetto, ma non alla stregua del diritto di libertà religiosa, che è espressione diretta della dignità della persona.

Con riferimento alla maggioranza cattolica della popolazione lituana – circostanza presentata dal governo lituano e suffragata dall’ultimo censimento del 2011 dal quale emergeva che il 77% dei residenti nel paese si era dichiarato cattolico – i giudici affermano, invece, che non può darsi per assunto il fatto che chiunque si sia dichiarato appartenente alla fede cristiana abbia trovato offensivi gli annunci pubblicitari. Non di meno, prosegue Strasburgo, anche supponendo che la maggioranza della popolazione lituana abbia effettivamente trovato offensivi gli annunci pubblicitari, sarebbe incompatibile con i valori soggiacenti della Convenzione europei dei diritti dell’uomo se l’esercizio dei diritti da parte di un gruppo di minoranza (in questo caso l’azienda) fosse subordinato al suo essere accettato dalla maggioranza (la popolazione lituana cattolica). Se così fosse i diritti di un gruppo di minoranza diventerebbero semplicemente teorizzati, ma non effettivi (§82). In questo ragionamento, tuttavia, i giudici dimostrano di scegliere tra due minoranze quale sia quella degna di ricevere maggiore tutela: tra l’effettiva minoranza di cittadini lituani che hanno ritenuto offensiva la pubblicità (il centinaio di persone che se ne è lamentata) e l’ancora più esigua minoranza di coloro che l’hanno proposta (l’azienda), solo quest’ultima viene tutelata nella propria libertà d’espressione, rectius di marketing senza remore.

Proprio in tale direzione muove anche la puntuale dichiarazione del Presidente della Conferenza Episcopale Lituana, l’Arcivescovo di Vilnius Gintaras Grušas, che ha dichiarato come “nell'equiparare gli interessi commerciali con la libertà di espressione, la decisione della Corte apre pericolosamente la strada a coloro che cercano di raggiungere i propri obiettivi commerciali per trarre profitto attaccando i sentimenti religiosi dei fedeli e profanando la loro religione6. È, infatti, “difficile definire una società libera e responsabile, se non rispetta le credenze religiose degli altri, indipendentemente dalla religione che confessano, specialmente quando queste credenze vengono sfruttate a fini di lucro, causando allo stesso tempo la divisione tra i membri di una società deprecando i simboli religiosi che sono importanti per i credenti7.



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1 Sekmadienis Ltd. v. Lithuania, no. 69317/14, 30-01-2018. La sentenza è stata emessa dai giudici Ganna Yudkivska (Ucraina), Vincent A. De Gaetano (Malta), Faris Vehabović (Bosnia-Erzegovina), Egidijus Kūris (Lituania), Carlo Ranzoni (Liechtenstein), Georges Ravarani (Lussemburgo), Péter Paczolay (Ungheria). La multa, irrogata dall’Autorità nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori, fu confermata dal Tribunale Amministrativo di Vilnius e dalla Corte Suprema Amministrativa della Lituania.

2 Ibid.,§11.

3 Ibidem.

4 Le immagini sono facilmente reperibili, ad esempio tramite il portale https://www.adsoftheworld.com (collegamento visitato il 3-2-2018), con i sottotitoli pubblicitari resi in lingua inglese.

5 In particolare la limitazione della libertà di pensiero, coscienza e religione prevista dalla Convenzione europea deve, per considerarsi legittima, essere «prescribed by law» e «necessary in a democratic society», nonché essere finalizzata alla tutela di: «interest of public safety», «protection of public order», «protection of healt or morals» e «protection of the rights and freedom of others». Più ampio, invece, il ventaglio di possibilità per circoscrivere la libertà d’espressione, per la quale la limitazione legittima deve essere pur sempre «prescribed by law» e «necessary in a democratic society» ma con un elenco di finalità notevolmente più esteso: «interests of national security», «interest of territorial integrity», «interest of public safety», «prevention of disorder or crime», «protection of health or morals», «protection of the reputation of others», «protection of rights of others», «prevention of the disclosure of information received in confidence», «maintenance of the authority and impartiality of the judiciary».

6 Statement of Archbishop Gintaras Grušas, President of the Lithuanian Bishop’s Conference, regarding the decision by the European Court of Human Rights in the case Sekmadienis Ltd. v. Lithuania, 1-02-2018. La dichiarazione è reperibile sul sito web della Conferenza Episcopale Lituana, http://lvk.lcn.lt/en/naujienos/,295 (collegamento visitato il 4-02-2018).

7 Ibidem.







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